Tag: partita IVA estera

  • Soggetti fiscalmente residenti in Italia con partita IVA estera

    Soggetti fiscalmente residenti in Italia con partita IVA estera

    Cosa accade quando soggetti persone fisiche fiscalmente residenti in Italia operano nel nostro paese attraverso una partita IVA estera?

    Immaginiamo il caso di una persona fisica residente in Italia ai sensi dell’art. 2 co. 2 del TUIR e, eventualmente, anche in base alle “tie-breaker rules” delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, che, senza il preventivo consulto con un professionista, decida di aprire una partita IVA in una differente giurisdizione, ad esempio la Romania o la Bulgaria, note per le aliquote particolarmente basse.

    L’intento può essere quello di operare in detto altro paese, con clienti e fornitori locali, ma anche quello di voler beneficiare di una tassazione più favorevole.

    Cosa accade quando tale soggetto, che ricordiamo essere fiscalmente residente in Italia, decide di fatturare con la partita IVA estera ai propri clienti italiani sostituti di imposta? Ad esempio ai medesimi clienti italiani con i quali fatturava in precedenza con la partita IVA italiana. A maggior ragione, nel caso in cui presti la propria attività presso i locali di detti clienti italiani.

    Allo stesso modo, e questo è un caso frequente, si può immaginare un soggetto trasferitosi in Italia dall’estero, acquisendo la residenza fiscale nel nostro paese. Supponiamo che questa persona continui ad operare in Italia con la partita IVA che aveva precedentemente nello stato estero pensando di continuare ad essere ivi tassato.

    Si omettono, in questo caso, le implicazioni relative ai regimi agevolati per i trasferimenti in Italia, per i quali si rimanda ad un apposito articolo.

    Esame del caso

    Un soggetto nella situazione descritta potrebbe tentare di invocare l’applicazione della Convenzione contro le Doppie Imposizioni tra l’Italia e il Paese estero presso cui ha aperto una partita IVA, con l’obiettivo di evitare la tassazione italiana. Tuttavia, tale ipotesi è da escludersi categoricamente.

    Anzitutto, per avvalersi della Convenzione, sarebbe necessario presentare un certificato di residenza fiscale rilasciato dall’Autorità estera competente. Tuttavia, se il soggetto mantiene la residenza fiscale in Italia, tale documento avrebbe esclusivamente la funzione di attestare le imposte versate all’estero, che possono essere detratte dall’imposta italiana secondo l’art. 165 del TUIR. Non è quindi possibile applicare la Convenzione, poiché i redditi derivano da attività di lavoro tra due soggetti fiscalmente residenti in Italia.

    Inoltre, anche qualora il soggetto riuscisse a dimostrare la sua qualifica di non residente ai fini fiscali italiani, la modalità effettiva di esercizio dell’attività in Italia potrebbe determinare la configurazione di una base fissa.

    Base fissa

    Per una trattazione approfondita della nozione di base fissa si rimanda allo specifico articolo. È comunque utile ricordare che, secondo il Commentario all’art. 5 del modello OCSE, l’elemento rilevante per individuare una stabile organizzazione è la disponibilità materiale di una sede fissa di affari, indipendentemente dal titolo giuridico con cui il contribuente ne ha l’uso (proprietà, locazione o altro).

    Nel caso del lavoro autonomo, rientra nella nozione di base fissa uno studio professionale stabilito in un altro Stato da un professionista. Tuttavia, esistono situazioni più sfumate, come il caso in cui il medesimo professionista svolga la propria attività presso la sede del cliente. In tali circostanze, il Commentario precisa che la qualificazione di base fissa dipende dalla possibilità di utilizzare i locali in modo stabile e continuativo.

    Al contrario, brevi visite presso il cliente per monitorare l’attività o definire i termini del contratto non costituiscono una base fissa.

    Diverso è invece il caso in cui il cliente metta a disposizione del professionista uno spazio dedicato per l’esecuzione continuativa dell’attività. Tale circostanza potrebbe essere quella che si realizza nel caso oggetto di analisi ma è  opportuno verificare, volta per volta, le condizioni contrattuali tra le parti.

    Il paragrafo 5 del Commentario all’art. 5 chiarisce che la qualifica di stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi è indipendente dall’eventuale apertura di una partita IVA nel Paese estero e si configura qualora il contribuente disponga di una sede fissa presso il committente.

    Trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette

    Se l’attività svolta in Italia da soggetti persone fisiche fiscalmente residenti che operano nel nostro paese attraverso una partita IVA estera è qualificabile come lavoro autonomo, il committente italiano assume il ruolo di sostituto d’imposta, applicando una ritenuta sul compenso sia nei confronti di soggetti residenti che non residenti. In particolare, come già approfondito in un precedente contenuto:

    • se il professionista estero ha una base fissa in Italia, il compenso è soggetto a una ritenuta d’acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25 co. 1 del DPR 600/73, in quanto assimilato ai soggetti residenti;
    • Se il professionista estero non ha una base fissa, ma la prestazione è eseguita in Italia, si applica una ritenuta a titolo d’imposta del 30% ai sensi dell’art. 25 co. 2 del DPR 600/73, salvo diverse disposizioni previste dalle Convenzioni internazionali;

    Trattamento IVA

    Anche sotto il profilo dell’IVA, la situazione presenta delle particolarità.

    Qualora il professionista non abbia una partita IVA italiana, come nel nostro caso, la sua presenza fisica continuativa e il coinvolgimento personale nell’attività potrebbero configurare una stabile organizzazione ai fini IVA (che presenta caratteristiche parzialmente differenti rispetto alla base fissa ai fini delle imposte dirette).

    Ai fini delle prestazioni territorialmente rilevanti in Italia, il soggetto dovrebbe aprire una partita IVA italiana. In tal caso, la base fissa, se partecipa all’operazione secondo quanto previsto dall’art. 53 del Regolamento UE n. 282/2011, è il soggetto passivo d’imposta. Pertanto, il committente dovrebbe ricevere una fattura con IVA italiana, anziché una fattura emessa da un soggetto estero senza applicazione dell’imposta, da integrare con l’IVA nazionale.

  • Partita IVA estera e lavoro in Italia

    Partita IVA estera e lavoro in Italia

    In questo contenuto si analizza la possibilità di svolgere un’attività di lavoro in Italia con una partita IVA estera, un’attività di per sé lecita, ma che ha notevoli implicazioni e presenta il rischio di essere tassati nel nostro paese qualora ricorrano determinate condizioni.

    Sono numerosi gli italiani che si trasferiscono all’estero, aprendo una partita IVA nel nuovo paese di residenza, ma che continuano a mantenere forti legami con l’Italia. Questo può accadere in ragione della clientela o del luogo di svolgimento dell’attività. L’articolo analizza le implicazioni fiscali per un soggetto non residente che lavora in Italia con una partita IVA estera, tralasciando il tema della residenza fiscale di tale persona e l’eventuale esterovestizione personale, per i quali si rimanda all’apposito contenuto.

    Ad apposito approfondimento si rimanda anche per le implicazioni ai fini IVA.

    Tassazione dei lavoratori autonomi non residenti in Italia

    Per quanto riguarda i soggetti non residenti che esercitano un’attività professionale in Italia, l’art. 23, comma 1, lettera d) del TUIR stabilisce che tutte le attività svolte nel territorio italiano rientrano nell’ambito di imposizione fiscale nazionale, indipendentemente dall’esistenza di una base fissa. Questo implica che anche una consulenza fornita in Italia da un professionista estero, recatosi presso la sede o un’unità locale di un’azienda italiana, è soggetta a tassazione italiana.

    Tuttavia, le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia assegnano, di norma, la potestà impositiva allo Stato italiano solo qualora il professionista non residente disponga di una base fissa nel paese. Al di là dei casi in cui la presenza di una base fissa è evidente, ad esempio, un avvocato straniero con un secondo studio in Italia, occorre valutare con attenzione le situazioni in cui viene concesso l’uso continuativo di un locale. Se il professionista che svolge il lavoro in Italia attraverso una partita IVA estera ha la piena disponibilità di tale spazio, esso potrebbe essere considerato una base fissa ai fini fiscali.

    Di contro, se il servizio professionale è reso all’estero, non si configura alcuna tassazione in Italia. Per questo motivo, ai sostituti d’imposta italiani che intrattengono rapporti con professionisti non residenti si raccomanda sempre richiedere una dichiarazione scritta, in cui il professionista attesti di essere fiscalmente residente all’estero e di aver svolto la prestazione al di fuori del territorio italiano.

    L’art. 25, comma 2, del DPR 600/73 dispone che i compensi erogati a soggetti non residenti siano soggetti a una ritenuta d’imposta del 30%. Tuttavia, tale ritenuta non deve essere applicata nei casi in cui le prestazioni siano effettuate all’estero o quando i compensi vengano versati alla base fissa italiana di un soggetto non residente.

    In quest’ultima ipotesi, i professionisti non residenti vengono assimilati ai residenti e sono tenuti a determinare in maniera analitica i redditi prodotti dalla base fissa, sui quali si applica una ritenuta d’acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25, comma 1, del DPR 600/73.

    Prassi dell’Agenzia delle Entrate

    La Risoluzione n. 154/2009 dell’Agenzia delle Entrate, riguardante il trattamento fiscale dei compensi percepiti in Italia da una base fissa di una società professionale estera, ha confermato l’applicazione della ritenuta d’acconto del 20%. Tale posizione si basa sull’idea che la presenza di una base fissa in Italia comporti un grado di radicamento economico tale da assimilare il soggetto estero a un residente dal punto di vista fiscale. Questo principio è stato ribadito anche nella risposta a interpello n. 429 del 2019.

    In contrasto con questo orientamento, la Risposta a interpello n. 285 del 2022 dell’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione differente, stabilendo che i compensi versati da un committente italiano a un consulente non residente, ma con base fissa in Italia, siano soggetti a una ritenuta a titolo d’imposta del 30%.

    Infine, per quanto riguarda il regime fiscale dei compensi corrisposti per attività di lavoro autonomo svolta in Italia da un soggetto che successivamente si è trasferito all’estero, la risposta a interpello n. 512 del 2019 ha chiarito che si applica la ritenuta a titolo d’imposta del 30%. Ciò vale anche se i compensi si riferiscono a un periodo in cui il professionista era residente in Italia, ma sono stati percepiti in un esercizio fiscale successivo, quando il soggetto era ormai fiscalmente non residente.

    Esempi di Convenzioni contro le doppie imposizioni

    Nella valutazione delle specifiche situazioni in cui un soggetto con partita IVA estera svolge un’attività di lavoro in Italia, devono essere analizzate le singole Convenzioni contro le doppie imposizioni , alcune delle quali presentano regole particolari per il lavoro autonomo.

    L’articolo 14, paragrafo 1, delle Convenzioni tra Italia e Olanda e tra Italia e Spagna, così come accade nella maggior parte degli accordi internazionali stipulati dall’Italia, stabilisce che i redditi derivanti da lavoro autonomo siano tassabili esclusivamente nello Stato di residenza del professionista. Tuttavia, se quest’ultimo dispone in modo abituale di una base fissa nell’altro Stato per l’esercizio della sua attività, anche quest’ultimo Stato ha il diritto di tassare i redditi, limitatamente alla quota attribuibile a tale base fissa.

    Un esempio pratico è fornito dalla risposta all’interpello n. 53 del 2023, in cui l’Agenzia delle Entrate ha approfondito il concetto di base fissa analizzando il caso di un professionista residente in Spagna. Tale oggetto svolgeva attività di lavoro autonomo sia nel proprio Paese che in Italia, dove aveva soggiornato per un totale di 124 giorni nel corso dell’anno fiscale. In tale contesto, l’Agenzia ha sottolineato che, per determinare l’esistenza di una base fissa, è essenziale il requisito della fissità, che implica la presenza di un luogo identificabile e utilizzato in modo continuativo, sebbene non necessariamente per la maggior parte del periodo d’imposta.

    In definitiva, l’accertamento dell’esistenza di una base fissa in Italia per il professionista non residente dipende dal suo effettivo potere di utilizzo del luogo ai fini dell’attività lavorativa, dalla durata e dalla consistenza della sua presenza in tale sede, nonché dalle specifiche attività svolte. Il tempo di permanenza, da solo, non è un criterio determinante per questa valutazione.

    Particolarità rispetto ai trattati standard si riscontrano nella Convenzione tra Italia e Thailandia, che prevede la tassazione in Italia nei seguenti casi: se il residente thailandese soggiorna in Italia per più di 40 giorni nell’anno fiscale, oppure se i compensi gli vengono corrisposti da un’impresa italiana o da una stabile organizzazione italiana di una società con sede all’estero. Un’ulteriore particolarità si trova nella Convenzione tra Italia e Cina, che consente l’imposizione fiscale in Italia non solo qualora il professionista disponga di una base fissa, ma anche nel caso in cui soggiorni nel Paese per più di 183 giorni nell’arco dell’anno.

    Un caso ancora più particolare è rappresentato dall’articolo 14 della Convenzione tra Italia e San Marino, in base alla quale i redditi derivanti dall’attività professionale di un soggetto residente in uno dei due Stati possono essere tassati anche nell’altro Stato, in base alla normativa interna di quest’ultimo. Ciò significa che, per un professionista sanmarinese, i compensi possono essere assoggettati a imposizione in Italia, a condizione che siano territorialmente rilevanti, anche se il professionista non dispone di una base fissa nel Paese.

    Nozione di base fissa ai fini convenzionali

    Per definire il concetto di base fissa, è necessario fare riferimento ai criteri generali stabiliti dall’articolo 5 del modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, che richiedono, da un lato, la presenza di una sede fissa di affari, dall’altro, l’effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte della società o dell’ente estero attraverso tale struttura.

    Secondo il Commentario al medesimo articolo, per determinare l’esistenza di una stabile organizzazione non è rilevante il titolo giuridico con cui l’impresa utilizza la sede fissa, bensì il fatto di averne la disponibilità effettiva. Questo significa che l’impresa può possedere la struttura, averla in affitto, in leasing o semplicemente poterla utilizzare stabilmente.

    Applicando in via analogica questi principi alle attività di lavoro autonomo, si può concludere che uno studio professionale (ad esempio di un avvocato, medico o ingegnere) situato in un altro Stato costituisce una base fissa. Tuttavia, vi sono casi particolari in cui il professionista si reca direttamente presso la sede del cliente per svolgere la propria attività. In tali circostanze, è opportuno rifarsi ai principi espressi nei paragrafi 12-15 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE, secondo cui il requisito della fissità dipende dalla possibilità di utilizzare determinati locali, anche se appartenenti a terzi, in modo sufficientemente continuativo. Seguendo lo stesso principio, un professionista residente all’estero che si reca sporadicamente presso un cliente italiano per esaminare documentazione, monitorare lo stato di avanzamento dei lavori o negoziare il compenso, non può essere considerato titolare di una base fissa nel nostro paese. Al contrario, se uno studio italiano mette stabilmente a disposizione del professionista residente all’estero un locale per l’esercizio della sua attività, si potrebbe riscontrare la presenza di una base fissa in Italia.

    Cassazioni più recenti

    La sentenza della Corte di Cassazione n. 2286 del 31 gennaio 2025 ha ulteriormente approfondito la nozione convenzionale di base fissa per un professionista, evidenziando che la semplice disponibilità di locali in un altro Stato non è sufficiente a determinare l’esistenza di una base fissa. Quest’ultima, invece, si configura quando vi è un “centro unico di interessi per lo svolgimento dell’attività professionale nello Stato estero”, indipendentemente dal fatto che il professionista utilizzi sempre lo stesso spazio fisico. L’elemento essenziale, secondo la Corte, è il carattere continuativo della permanenza del professionista in quel Paese.

    Sulla base di questa interpretazione, una persona che opera in modo costante in un altro Stato potrebbe essere considerata titolare di una base fissa anche se il luogo di lavoro cambia di volta in volta. Inoltre, la Cassazione ha ribadito che, secondo la riserva formulata dall’Italia all’articolo 7 del modello OCSE, la nozione di base fissa non equivale a quella di stabile organizzazione, ma rappresenta qualcosa di meno. Perché si configuri una base fissa, è sufficiente che l’attività venga svolta in modo continuativo e con modalità analoghe a quelle adottate nel Paese di residenza, senza che sia necessario un effettivo titolo di disponibilità sui locali.

    Al fine di evitare eventuali contestazioni, è opportuno limitare e specificare la presenza del professionista in uno Stato estero sia in termini di durata sia per quanto riguarda l’uso di spazi e attrezzature. A tal proposito, è consigliabile inserire clausole dettagliate nella lettera di incarico.

    Home working per i professionisti

    Infine, in alcuni casi, anche l’esercizio dell’attività di lavoro autonomo dalla propria abitazione può configurare una base fissa al verificarsi di determinate condizioni, da valutare caso per caso. I paragrafi 18 e 19 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE forniscono un esempio emblematico: una consulente che risiede stabilmente in un altro Stato e svolge la propria attività dalla sua abitazione potrebbe essere considerata titolare di una base fissa, in quanto la sua casa rappresenterebbe il centro della sua attività professionale in quel Paese.

    Il caso particolare dei registi cinematografici

    Secondo quanto chiarito nella risposta all’interpello n. 129 del 2023, i compensi percepiti da registi non residenti per attività svolte in Italia rientrano nella categoria delle prestazioni professionali ai fini convenzionali (art. 14 del Modello OCSE), e non sono invece soggetti alle disposizioni specifiche previste per artisti e sportivi di cui all’art 17 del Modello OCSE.

    Questo implica che, in assenza di una base fissa, i compensi per il lavoro volto in Italia attraverso una partita IVA estera, saranno imponibili solamente nello Stato di residenza del percettore e non sono assoggettati alla ritenuta d’imposta del 30% prevista dall’art. 25, comma 2, del DPR 600/73. Simili conclusioni sono valide anche anche nel caso in cui i redditi siano stati erogati a una LLC, una partnership statunitense fiscalmente trasparente, interamente detenuta dal regista. Per l’applicazione dei benefici convenzionali alle partnership estere, si rimanda all’apposito contenuto.

    Il caso particolare di soggetti non residenti con partita IVA italiana

    Le risposte agli interpelli nn. 384 e 387 esaminano il caso opposto a quello di una partita IVA estera che svolge un lavoro in Italia. E’ il caso di soggetti non residenti che operano nel nostro paese attraverso una partita IVA italiana.

    Convenzione Italia – Thailandia

    La risposta n. 384/2023 riguarda un cittadino italiano intenzionato a trasferirsi in Thailandia, con l’obiettivo di avviare un’attività professionale in loco. Contestualmente, l’interessato vorrebbe aprire una partita IVA in Italia per emettere fatture relative a determinate prestazioni, sebbene nessuna di esse sia destinata a clienti italiani.

    Come illustrato in precedenza, l’art. 14 della Convenzione tra Italia e Thailandia, per quanto concerne i redditi da lavoro autonomo, prevede la tassazione in Italia se si verifica almeno una delle seguenti condizioni:

    • il residente thailandese trascorre più di 40 giorni all’anno in Italia;
    • i compensi provengono da un’impresa italiana;
    • i compensi sono corrisposti da una stabile organizzazione italiana di un’impresa con sede all’estero.

    Poiché queste condizioni sono alternative, anche solo la permanenza in Italia per oltre 40 giorni o l’esecuzione di una prestazione per un committente italiano determinerebbe l’obbligo di tassazione in Italia.

    Convenzione Italia – Cina

    La risposta n. 387/2023 affronta, invece, il caso di un cittadino italiano residente fiscalmente in Cina che intende aprire una partita IVA in Italia per fornire servizi di consulenza a società situate nell’Unione Europea. Tale soggetto possiede un immobile in Italia, il quale potrebbe configurare una stabile organizzazione nel territorio nazionale.

    Secondo il Commentario all’art. 5 del modello OCSE, la mera detenzione di una posizione IVA in un Paese non implica automaticamente l’esistenza di una stabile organizzazione ai fini dell’imposizione sul reddito. Tuttavia, l’eventuale configurazione dell’immobile italiano come stabile organizzazione dovrebbe essere valutata alla luce della definizione di sede fissa di affari fornita dallo stesso art. 5.

    Di norma, le Convenzioni sottoscritte dall’Italia stabiliscono che l’attività di lavoro autonomo sia imponibile nello Stato in cui viene esercitata solo se il professionista dispone in tale Stato di una base fissa. Nella risposta in commento, la base fissa potrebbe essere rappresentata dall’immobile italiano, purché le prestazioni lavorative vengano svolte effettivamente in tale luogo, fermo restando il principio per cui occorre distinguere il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette da quello ai fini dell’IVA.

    Tuttavia, la Convenzione tra Italia e Cina presenta particolarità rispetto ad altri trattati. L’art. 14, come anticipato, prevede la tassazione in Italia non solo qualora il residente cinese disponga di una base fissa per l’esercizio della propria attività professionale, ma anche nel caso in cui il medesimo soggiorni in Italia per un periodo superiore a 183 giorni in un anno. In assenza di almeno una di queste condizioni, i redditi derivanti dall’attività professionale sono imponibili esclusivamente nello Stato di residenza del beneficiario.

    Conclusioni

    In base a quanto sopra esaminato, risulta dunque opportuno affidarsi ad un professionista che sia in grado di determinare a quali condizioni la partita IVA estera che svolge un’attività di lavoro in Italia sia quivi soggette a tassazione e quali sono i rischi in termini sanzionatori.