Autore: Zeno Brusa

  • Tassazione in Italia delle SCI francesi

    Tassazione in Italia delle SCI francesi

    Come sono assoggettati a tassazione, ad oggi, i soci residenti fiscali in Italia di società di persone estere e, in particolare, delle SCI francesi?

    Le partnership sono una forma societaria presente in vari ordinamenti (per fare gli esempi più comuni, possiamo menzionare le LLP in UK, le LLC negli USA, le SCI in Francia e nel Principato di Monaco), anche se non tutti, e, generalmente, prevedono la tassazione per trasparenza in capo ai soci del redditi generato dalle stesse.

    Il principio generale: tassazione per trasparenza e distribuzione dei proventi

    Ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. d) del TUIR, l’Italia considera soggette a IRES le entità estere quali le partnership, anche se fiscalmente trasparenti secondo l’ordinamento estero. Pertanto, i soci italiani di tali entità sono tassati in Italia non per trasparenza, bensì solo al momento della distribuzione dei proventi, che vengono qualificati come dividendi di fonte estera e assoggettati ad imposta sostitutiva del 26%.

    Questa divergenza tra gli ordinamenti ha portato l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, a introdurre un criterio interpretativo volto a evitare la doppia imposizione: le imposte assolte all’estero dal socio italiano sul reddito percepito per trasparenza si considerano, per finzione, sostenute dalla società estera stessa. Di conseguenza, in Italia sarà tassato solo il reddito effettivamente percepito, al netto dell’imposta estera.

    Tuttavia, questo meccanismo non elimina l’asimmetria temporale: l’imposta estera è versata nel periodo di produzione del reddito, mentre l’imposta italiana interviene solo in seguito alla distribuzione, potenzialmente anche anni dopo.

    La disparità di trattamento tra le sociétés civiles immobilières (SCI) francesi e le società semplici italiane

    Un esempio che tocca molti italiani, per una questione di prossimità geografica, è quello delle sociétés civiles immobilières (SCI) di diritto francese che detengono immobili localizzati in Francia ma i cui soci sono residenti nel nostro paese.

    La loro qualificazione fiscale in Italia può avere implicazioni molto diverse:

    • SCI residente in Italia in quanto esterovestita: se la sede dell’amministrazione è in Italia, la SCI è fiscalmente residente (si rimanda allo specifico contenuto). La cessione di un immobile detenuto da oltre 5 anni è esente da tassazione ex art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR.
    • SCI interposta (fiscalmente inesistente): se la SCI è ritenuta priva di autonoma soggettività fiscale, i redditi (inclusa l’eventuale plusvalenza) si imputano direttamente ai soci italiani, con effetti fiscali analoghi alla situazione precedente.
    • SCI fiscalmente esistente e residente all’estero: in questo caso, la plusvalenza non è tassata in Italia in quanto esclusa dall’art. 67 TUIR, ma al momento della distribuzione dell’utile ai soci italiani si applica l’art. 44, comma 1, lett. e), con tassazione del 26% sul provento come reddito di capitale, al netto delle imposte già assolte in Francia.

    Per una società semplice italiana che cede un immobile detenuto da oltre 5 anni, la plusvalenza è esente e la successiva distribuzione ai soci non genera alcun reddito imponibile.

    Tuttavia, in presenza di una SCI estera non esterovestita, fiscalmente esistente e residente in Francia, la distribuzione dell’utile derivante dalla cessione di un immobile (seppur detenuto da oltre 5 anni) viene tassata in Italia come dividendo, generando un carico fiscale del 26%, diverso rispetto al trattamento riservato alle società semplici italiane.

    Esempio pratico

    La SCI è fiscalmente trasparente in Francia ma opaca in Italia. Ipotizziamo che la società venda un immobile in Francia detenuto da 10 anni, realizzando una plusvalenza di 100.000 €.

    • In base all’art. 13, par. 1, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, la tassazione è concorrente.
    • Il Code Général des Impôts prevede in Francia una tassazione del 19% ridotta in base agli anni di possesso: immaginiamo un’imposta dovuta in Francia pari ad € 14.000.
    • In Italia, la plusvalenza è invece esclusa da tassazione in quanto l’immobile è detenuto da oltre 5 anni.
    • Tuttavia, al momento della distribuzione dell’utile ai soci, l’Italia applica l’art. 44, comma 1, lett. e): reddito di capitale tassato al 26%. L’imposta italiana sarà quindi (100.000 – 14.000) × 26% = 22.360 €, con un’imposizione complessiva di 36.360 €.

    A parità di situazione sostanziale, se l’immobile fosse stato posseduto da una società semplice italiana, il carico fiscale sarebbe stato pari a zero in Italia e 14.000 € in Francia, senza ulteriori conseguenze al momento della distribuzione.

    Conclusione

    Vi è una evidente asimmetria tra la tassazione in Italia delle SCI francesi e delle società semplici italiane.

    L’attuale trattamento delle entità estere opache crea una discriminazione rispetto alle entità italiane trasparenti. La riforma prevista dalla legge delega 111/2023 rappresenta un’opportunità per allineare i due regimi, riconoscendo la trasparenza fiscale attribuita dalle giurisdizioni estere. Questo principio, se adottato, renderebbe irrilevante ai fini italiani la distribuzione di utili già tassati all’estero, ponendo fine a una forma di doppia imposizione non giustificata e favorendo la neutralità fiscale.

  • Split year nelle convenzioni contro le doppie imposizioni

    Split year nelle convenzioni contro le doppie imposizioni

    Tra le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia, solamente due prevedono il meccanismo del cosiddetto “split year”, in base al quale una persona fisica è considerata residente fiscale limitatamente ad una frazione dell’anno, a condizione che il trasferimento da uno stato all’altro avvenga nel corso dell’anno medesimo.

    La normativa domestica italiana non contempla il frazionamento del periodo d’imposta a differenza di quanto previsto da vari ordinamenti esteri, ad esempio quelli del Regno Unito e della Svizzera.

    Lo stesso discorso vale per la maggior parte delle convenzioni siglate dall’Italia.

    I trattati con Svizzera e Germania derogano invece alla regola generale per cui la residenza fiscale di un soggetto è relativa ad un’annualità intera.

    Per le persone che si sono trasferite in Italia nel corso del 2024, a prescindere dalla possibilità di beneficare di regimi agevolativi quali gli impatriati, i ricercatori e docenti, i neo domiciliati o quello per i pensionati, per i quali si rimanda agli appositi contenuti, va valutato se esse abbiano acquisito o meno la residenza fiscale per detta annualità.

    Da ciò derivano gli obblighi dichiarativi e di monitoraggio fiscale.

    Frazionamento del periodo d’imposta

    Il meccanismo dello “split year” si applica nei casi di trasferimento di residenza fiscale tra due Stati nel corso dello stesso anno solare e consente, in presenza di determinati requisiti, di suddividere l’anno d’imposta tra i due Paesi.

    Si tratta di una deroga alla regola interna in base alla quale un soggetto è considerato fiscalmente residente in Italia se rispetta i requisiti di cui all’art. 2 c.2 del TUIR per la maggior parte del periodo d’imposta (vale a dire per almeno 183 giorni, o 184 in caso di anno bisestile).

    Funzionamento pratico dello split year

    Per comprendere meglio il meccanismo, si possono considerare due situazioni ipotetiche relative al trasferimento di una persona fisicamente residente in Svizzera verso l’Italia nel corso del 2024.

    Caso 1 – Trasferimento nel primo semestre (es. 30 aprile 2024)

    • Fino al 30 aprile 2024, la persona è fiscalmente residente in Svizzera secondo la normativa elvetica.
    • Dal 1° maggio 2024, la persona si trasferisce in Italia e, quindi, diventa fiscalmente residente in Italia se rispetta almeno uno dei requisiti di cui all’ all’art. 2 c.2 del TUIR.
    • Secondo la normativa domestica, il periodo 1° maggio – 31 dicembre copre la maggior parte dell’anno d’imposta. Di conseguenza, il soggetto sarebbe fiscalmente residente in Italia per l’intero anno 2024.
    • Tuttavia, si verifica una doppia residenza fiscale per il periodo 1° gennaio – 30 aprile, in quanto la Svizzera lo considera residente per quel periodo.
    • In questo caso, può applicarsi la clausola convenzionale dello split year, che consente di suddividere l’anno fiscale tra i due Stati. La persona viene quindi considerata fiscalmente residente:
      • in Svizzera per il periodo 1° gennaio – 30 aprile;
      • in Italia per il periodo 1° maggio – 31 dicembre.

    Caso 2 – Trasferimento nel secondo semestre (es. 31 ottobre 2024)

    • Fino al 31 ottobre 2024, la persona è fiscalmente residente in Svizzera.
    • Dal 1° novembre 2024, diventa residente anagraficamente in Italia.
    • Tuttavia, poiché il periodo 1° novembre – 31 dicembre non copre la maggior parte del periodo d’imposta, secondo la normativa italiana il soggetto non acquisisce la residenza fiscale italiana per il 2024.
    • Inoltre, non si verifica una doppia residenza fiscale, poiché la Svizzera è l’unico Stato a poter considerare il soggetto residente per l’intero anno.
    • Di conseguenza, la clausola dello split year non è applicabile, e la persona viene considerata non residente in Italia per tutto il 2024.

    Chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate

    Secondo la Risoluzione n. 471/E del 3 dicembre 2008 dell’Agenzia delle Entrate:

    • Il frazionamento dell’anno d’imposta, ammesso in ambito convenzionale, non modifica la definizione di residenza ai fini del diritto interno né può essere utilizzato per integrarla;
    • In linea con quanto previsto dal Commentario OCSE all’art. 4 del Modello di Convenzione, la regola dello split year è ammessa esclusivamente ai fini dell’applicazione del paragrafo 2 dell’art. 4, che disciplina i criteri di risoluzione dei conflitti di doppia residenza fiscale tra Stati;
    • Pertanto, lo split year è applicabile solo nei casi in cui entrambi gli Stati contraenti abbiano titolo a considerare il soggetto come proprio residente fiscale

    Le risposta a interpello n. 171/2020. e n. 54/2023, proprio relative ai rapporti con la Svizzera, confermano quanto sopra esemplificato in merito all’applicazione del meccanismo dello “split year” nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, ma il medesimo ragionamento può essere applicato anche ai casi di trasferimento della residenza da e verso la Germania.

  • Tassazione capital gain su partecipazioni in società immobiliari

    Tassazione capital gain su partecipazioni in società immobiliari

    La tassazione dei non residenti che realizzano dei capital gain sulla cessione di partecipazioni in società immobiliari italiane può condurre a diverse problematiche, che analizzeremo nel presente contenuto.

    È frequente il caso di soggetti fiscalmente non residenti che detengono beni immobili in Italia, a volte direttamente, altre volte per il tramite di una società o catene societarie, anche offshore.

    Immaginiamo il caso di uno di questi soggetti che realizza un capital gain dalla cessione di partecipazioni in una società il cui valore deriva in modo prevalente da immobili situati nel nostro paese.

    A seconda che tra l’Italia ed il proprio paese di residenza esista o meno una convenzione contro le doppie imposizioni, colui che realizza la plusvalenza può trovarsi ad affrontare situazioni divere. Nel caso in cui sia presente un trattato, inoltre, senza considerare gli effetti dell’applicazione del MLI OCSE che l’Italia non ha ancora implementato, bisogna andare a verificare cosa prevede l’art 13 del medesimo, potendosi configurare almeno due sotto-casistiche.

    Per comprendere meglio le situazioni che si possono verificare è utile fare degli esempi.

    Assenza di convenzione contro le doppie imposizioni

    Il caso scuola è quello di una persona fisica residente nel Principato di Monaco che cede le proprie partecipazioni in una società con sede legale nelle Cayman Islands, il cui valore deriva per oltre il 50% da beni immobili situati in Italia.

    Tra l’Italia e Montecarlo esiste un accordo relativo allo scambio di informazioni, il cosiddetto TIEA, il quale tuttavia non definisce i criteri di territorialità dei redditi come una normale convenzione contro le doppie imposizioni.

    In tale situazione la plusvalenza è assoggettata a tassazione in Italia ai sensi della norma domestica e, in particolare, dell’art. 23 comma 1-bis del TUIR che prevede la tassazione nel nostro paese per le plusvalenze realizzate da soggetti non residenti attraverso la cessione di azioni e quote di società “il cui valore, per più della metà, deriva, in qualsiasi momento nel corso dei trecentosessantacinque giorni che precedono la loro cessione, direttamente o indirettamente, da beni immobili situati in Italia”.

    Esistenza di una convenzione contro le doppie imposizioni

    In presenza di un trattato internazionale, il cui dettato prevale rispetto a quello della norma domestica, si applica l’articolo 13 del medesimo che, nella stragrande maggioranza dei casi, prevede la tassazione del capital gain solamente nello stato di residenza del cedente.

    Proponiamo una situazione relativamente frequente per i cosiddetti HNWI, anche in ragione delle giurisdizioni coinvolte.

    Una persona fisica, il nostro HNWI, è residente negli Stati Uniti nei quali, allo scopo di agevolare la propria successione, ha istituito un Trust. A questo Trust sono state attribuite tutte le quote dei una società delle Isole Cayman, la quale, a sua volta, detiene il 100% di una SARL lussemburghese la quale, infine, è titolare del 100% delle quote di una SRL immobiliare italiana.

    Quest’ultima ha un patrimonio netto composto per la maggior parte da immobili situati nel nostro paese.

    Convenzione tipo stipulata dall’Italia

    Qualora ad essere ceduta sia la partecipazione nella società caraibica, la convenzione contro le doppie imposizioni da prendere come riferimento è quella tra l’Italia (paese dove sono ubicati gli immobili) e gli Stati Uniti (paese di residenza del cedente). La predetta convenzione, come la maggior parte di quelle stipulate dall’Italia, prevede la tassazione della plusvalenza nel solo paese di residenza del cedente, quindi gli USA.

    Qualora ad essere ceduta sia, invece, la SARL lussemburghese, si ritorna al caso precedente, in quanto il cedente è residente nelle Isole Cayman, che non hanno stipulato alcun trattato con l’Italia, la quale assoggetterà a tassazione il capital gain ai sensi dell’art. 23 comma 1-bis del TUIR.

    Convenzione che prevede una disposizione specifica per le società immobiliari

    Se, infine, nella catena partecipativa, in luogo della società alle Isole Cayman ci fosse una società residente ad Hong Kong e questa cedesse la partecipazione nella SARL lussemburghese che, a sua volta, detiene il 100% delle quote della SRL immobiliare italiana, si applicherebbe il DTT tra Italia e Hong Kong, il quale all’ Art. 13 paragrafo 4 prevede che “gli utili che un residente di una Parte Contraente ritrae dall’alienazione di azioni di una società derivanti più del 50% del loro valore, direttamente o indirettamente, da beni immobili situati nell’altra Parte Contraente sono imponibili in detta altra Parte (…)”.

    Il trattato prevede una disposizione simile a quella della norma domestica italiana e si tornerebbe ad una tassazione in Italia del capital gain.

    Conclusioni

    Nell’ambito di operazioni volte a ristrutturare il patrimonio famigliare e che prevedono la cessione indiretta di immobili ubicati in Italia, attraverso la realizzazione delle società che li possiedono, il primo step è quello di verificare se sia o meno presente una convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia ed il paese di residenza del cedente.

    In caso positivo, per la tassazione capital gain su partecipazioni in società immobiliari, bisogna fare riferimento alle previsioni dell’art. 13, che può presentare differenze tra un trattato e l’altro.

  • Passaggio generazionale nelle imprese – aspetti fiscali

    Passaggio generazionale nelle imprese – aspetti fiscali

    Un tema di particolare interesse nella vita delle imprese, in particolare per quelle di famiglia, è il passaggio generazionale.

    Nella normativa italiana è presente una disposizione fiscale volta ad agevolare il passaggio generazionale di aziende e partecipazioni in imprese di famiglia.

    Tra gli strumenti che consentono di ottenere questo risultato, nel presente contenuto ci si focalizza brevemente sull’applicazione di detta normativa relativamente agli istituti della donazione di azienda (o di partecipazioni) e del patto di famiglia, rimandando ad apposito articolo per quanto riguarda l’utilizzo del trust.

    Donazione d’azienda e patto di famiglia

    Nell’ambito del passaggio generazionale delle imprese, mentre il concetto di donazione è (o do dovrebbe) essere chiaro a tutti, meno noto (almeno per i non addetti ai lavori) è l’istituto del patto di famiglia.

    Mediante il patto di famiglia l’imprenditore o il titolare di partecipazioni trasferisce l’azienda o le partecipazioni ad uno o più discendenti ritenuti idonei alla guida dell’impresa di famiglia con contestuale compensazione degli eredi non assegnatari dell’azienda.

    Il beneficiario di una donazione d’azienda può essere qualunque soggetto, anche se le agevolazioni fiscali si realizzano solo in capo al coniuge o ai discendenti, mentre l’assegnatario dell’azienda nell’ambito del patto di famiglia potrà essere solo un “discendente” dell’imprenditore, quindi suo figlio o suo nipote. È escluso il coniuge.

    Il contratto del patto di famiglia:

    • rappresenta una deroga al divieto dei patti successori, in forza del quale sarebbe preclusa la possibilità di trasferire le partecipazioni;
    • permette di realizzare un’attribuzione stabile e definitiva, sottratta alla disciplina in materia di riduzione e non assoggettabile a future contestazioni;
    • mantiene la stabilità del trasferimento, la quale è garantita anche in caso di sopravvenienza di nuovi legittimari;
    • consente di attribuire convenzionalmente un valore alle partecipazioni, cristallizzandole a quella data senza più ridiscuterne in futuro;
    • consente di ritornare sui propri passi, recedendo dal contratto e ripristinando la situazione di partenza.

    Esenzione dall’imposta di donazione nel passaggio generazione delle imprese

    Come regola generale, la donazione di azienda o di partecipazioni effettuata a favore di soggetti diversi dal coniuge o dal discendente del donante, è assoggettata a imposta sulle donazioni con le aliquote e le franchigie ordinarie.

    Qualora la donazione venga realizzata in favore del coniuge o del discendente del donante, si possono verificare due situazioni:

    • se non sussistono le condizioni di esenzione individuate dall’art. 3 co. 4-ter del DLgs. 346/90, è soggetta ad imposta sulle donazioni con le aliquote e le franchigie ordinarie;
    • se, invece, sussistono dette condizioni, è esente da imposta sulle donazioni.

    L’art. 3 co. 4-ter del DLgs. 346/90, riformulato dal DLgs. 139/2024, prevede un’esenzione per i trasferimenti, realizzati tramite donazione o patto di famiglia di aziende, quote sociali e azioni, che consente di azzerare l’imposizione in presenza di determinate condizioni, se le partecipazioni o l’azienda vengono trasferite al coniuge (in caso di donazione) o ai discendenti (in entrambi i casi).

    Inoltre, in base a quanto riportato nella risposta AdE 571/2021, le partecipazioni che abbiano goduto dell’esenzione dall’imposta di donazione ex art. 3 co. 4-ter del DLgs. 346/90 non rientrano nel computo del coacervo delle donazioni che il medesimo donatario riceva dal medesimo donante.

    Trasferimenti di Aziende

    L’esenzione fa riferimento al trasferimento di aziende o rami d’azienda ex art. 2555 c.c.

    Partecipazioni Societarie

    L’esenzione si applica anche a:

    • Società di persone: senza condizioni aggiuntive, se il trasferimento avviene per successione, donazione o strumenti similari.
    • Società di capitali: solo se il trasferimento garantisce il controllo ai sensi dell’art. 2359, primo comma, n. 1) c.c.

    Condizione del Controllo

    L’esenzione è concessa se il beneficiario ottiene o integra il controllo sociale, definito come il possesso della maggioranza dei voti in assemblea. Le casistiche coperte includono:

    1. Acquisizione ex novo del controllo (es. erede non socio che riceve il 51% di una società).
    2. Integrazione del controllo sommando le nuove partecipazioni a quelle già possedute.
    3. Rafforzamento del controllo già detenuto con ulteriori quote ricevute.

    Secondo la Cassazione n. 6591/2021, nel caso in cui, per mezzo di un patto di famiglia, il titolare di un’azienda trasferisca le quote di maggioranza di una società di capitali, pari al 75%, suddividendole in parti uguali tra i suoi tre figli, che ottengono il 25% ciascuno, non sussistono le condizioni per l’applicazione dell’esenzione, neppure se i medesimi, il giorno successivo alla stipula del patto di famiglia, siglano un patto parasociale in cui si impegnano ad assumere qualsiasi decisione relativa all’ordinaria o straordinaria amministrazione e qualsiasi decisione all’unanimità.

    Acquisto in Comunione

    • Se la quota di controllo viene suddivisa tra più eredi, l’agevolazione si applica solo se uno di loro acquisisce individualmente il controllo.
    • Se la quota è trasferita in comproprietà tra più discendenti, l’agevolazione spetta a tutti.

    Quote di Società Non Residenti

    Confermando i precedenti orientamenti giurisprudenziali, la riforma ha esteso l’esenzione anche ai trasferimenti di quote di società estere, purché situate in Paesi dell’UE, dello Spazio Economico Europeo o in Paesi con adeguato scambio di informazioni.

    Condizioni agevolative e periodo di osservazione quinquennale

    L’esenzione impositivo per il passaggio generazionale delle imprese prevista dall’art. 3 co. 4-ter del DLgs. 346/90 è subordinata, oltre ai presupposti oggettivi e soggettivi, al rispetto di un periodo di osservazione quinquennale, durante il quale il beneficiario deve mantenere determinati comportamenti. Il DLgs. 139/2024 ha precisato gli obblighi per le tre tipologie di trasferimento agevolabili:

    • Azienda o rami d’azienda: l’attività d’impresa deve proseguire per almeno 5 anni dal trasferimento.
    • Quote di controllo di società di capitali: il controllo deve essere mantenuto per almeno 5 anni.
    • Altre quote sociali: il diritto sulle quote deve essere detenuto per almeno 5 anni.

    Per quanto riguarda le società di persone, il beneficiario deve conservare la titolarità delle quote per 5 anni, indipendentemente dal controllo.

    Caso particolare le società “senza impresa”

    Resta aperto il dibattito circa l’applicabilità dell’esenzione ai trasferimenti di quote di società senza attività imprenditoriale, come holding pure e società immobiliari. Prima della riforma, dottrina e giurisprudenza tendevano ad escludere l’esenzione in tali casi, in quanto la ratio del beneficio è agevolare il passaggio generazionale dell’impresa.

    • Società immobiliari: la Cassazione (sentenza n. 6082/2023) ha escluso l’esenzione, ritenendo che il trasferimento di una partecipazione immobiliare non sia assimilabile al trasferimento d’impresa.
    • Holding pure: l’Agenzia delle Entrate (interpello n. 552/2021) ha negato il beneficio se la holding detiene solo quote di minoranza di una società operativa.
    • Società semplice: la questione rimane controversa, con posizioni dottrinali contrastanti.

    Dichiarazione e decadenza dal beneficio

    L’impegno a mantenere l’azienda per 5 anni deve essere dichiarato dagli aventi causa nell’atto di donazione o nel patto di famiglia. Il mancato rispetto delle condizioni comporta la decadenza dall’agevolazione, con obbligo di versare:

    • l’imposta di donazione in misura ordinaria;
    • la sanzione amministrativa del 25% ex art. 13 del DLgs. 471/97;
    • gli interessi di mora.

    Secondo la risposta Agenzia delle Entrate 231/2019, la cessione della sola nuda proprietà dell’azienda ricevuta non comporta la decadenza dal beneficio. Questo accade in quanto l’usufruttuario ne mantiene la gestione.

    Compensazioni nel patto di famiglia

    Specificatamente al solo patto di famiglia, ai sensi dell’art. 768-quater c.c., il beneficiario che ottiene l’azienda o le partecipazioni societarie è tenuto a “liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote” di legittima loro spettanti.

    Tali compensazioni possono essere previste anche dallo stesso contratto di patto di famiglia e, in questa situazione, potrebbe essere lo stesso disponente ad effettuarle.

    Il trattamento fiscale delle compensazioni è stato analizzato da numerosi documenti di prassi, tra cui le circolari n. 3/2008 e n. 18/2013 e la risoluzione n. 12/2025 ed è tato oggetto di varie sentenze della Cassazione, tra le quali spiccano la 29506/2020, la. 19561/2022 e la 19627/2024).

    Tali interventi sono giunti alla conclusione che;

    • l’esenzione si applica, nell’ambito del patto di famiglia, esclusivamente con riferimento al trasferimento effettuato dal disponente al beneficiario dell’azienda o delle quote di partecipazione;
    • le compensazioni sono soggette all’imposta sulle donazioni, le cui aliquote e franchigie si determinano in relazione al rapporto di parentela intercorrente tra disponente e legittimario non assegnatario dell’azienda.
  • Credito per le imposte estere su servizi tecnici

    Credito per le imposte estere su servizi tecnici

    Le imprese italiane che effettuano “servizi tecnici” nei confronti di committenti esteri spesso si trovano di fronte al dilemma circa la possibilità di beneficiare o meno del credito per le imposte estere ex art. 165 del TUIR per le ritenute alla fonte operate nel paese in cui investono.

    Il tema è stato trattato da numerosi interventi di prassi e chiarito nell’ambito di alcune sentenze della Cassazione, ma presenta ancora numerosi dubbi in ragione dell’indeterminatezza del concetto dei cosiddetti servizi tecnici che non è stata oggetto di una specifica disciplina nel modello base di Convenzione OCSE (mentre la specifica previsione inserita nel modello ONU è valida per un numero molto limitato di convenzioni stipulate dall’Italia).

    Servizi Tecnici

    I compensi per servizi tecnici:

    • generalmente seguono le regole degli utili delle imprese e, quindi, se la Convenzione è conforme al modello OCSE, non sono tassati nell’altro Stato in assenza di stabile organizzazione;
    • nelle rare Convenzioni redatte seguendo il modello ONU, è possibile che si rilevi la presenza di una stabile organizzazione se i servizi tecnici sono svolti in modo continuativo nel tempo. In tal caso sono assoggettati a tassazione anche nello stato della fonte;
    • Infine, può accadere che tali servizi seguano regole proprie delle royalties.

    Credito per le imposte estere

    L’articolo 165, comma 2, del TUIR stabilisce che per determinare i redditi di fonte estera sui quali è possibile applicare il credito d’imposta per le imposte pagate nell’altro paese, si deve seguire il criterio della “lettura a specchio” dell’articolo 23. In pratica, il reddito è considerato di fonte estera nella misura in cui, se fosse prodotto in Italia da un soggetto non residente, sarebbe soggetto a tassazione in Italia.

    L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 9 del 5 marzo 2015, ha distinto tra i redditi provenienti da Stati con i quali sono state stipulate Convenzioni contro le doppie imposizioni e quelli da Stati senza Convenzione.

    Nel primo caso, il credito d’imposta è garantito dalla stessa Convenzione, che disciplina in modo specifico determinate categorie di reddito.

    Nel caso di Stati senza una Convenzione, qualora un’impresa residente in Italia produca redditi in un altro Stato che non rientrano tra le categorie previste dall’art. 23 del TUIR, gli stessi non possono essere considerati di fonte estera, e quindi non è possibile applicare il credito d’imposta. In questa particolare situazione, l’imposta pagata all’estero è considerata deducibile dal reddito complessivo dell’impresa.

    Principali interventi dell’Agenzia delle Entrate

    L’Agenzia delle Entrate, in linea generale, ha mantenuto una posizione in base alla quale le ritenute subite all’estero, se non riconducibili ad una stabile organizzazione, così come configurata dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e l’altro Stato, né inquadrabili in una delle altre categorie di reddito menzionate espressamente dal trattato, non possono essere detratte dalle imposte italiane a norma dell’art. 165 del TUIR e devono, quindi, essere richieste a rimborso allo Stato estero.

    • La situazione esaminata dalla risposta ad interpello n. 23 del 01/02/2019 riguarda una società italiana che aveva prestato servizi ingegneristici per la realizzazione di un hotel nei confronti di un cliente albanese, il quale, in base alla propria norma nazionale, aveva prelevato una ritenuta a titolo d’imposta del 15%. L’Albania è legata all’Italia da una Convenzione contro le doppie imposizioni conforme al modello OCSE per quanto riguarda l’art. 5 sulla stabile organizzazione (nel quale non sono inclusi i servizi tecnici). Applicando l’art. 7 della medesima, le ritenute subite dall’impresa italiana non risulterebbero dovute, in quanto tale articolo prevede la tassazione esclusiva del reddito d’impresa nello Stato di residenza del percipiente, se questo non ha una stabile organizzazione nello Stato della fonte. Ne deriva l’impossibilità di applicare l’art. 165 del TUIR e la necessità, invece, richiedere a rimborso la stessa all’Amministrazione Finanziaria albanese.
    • Nella risoluzione n. 277/2008, avente ad oggetto le ritenute subìte da un’impresa italiana in Kazakhistan per prestazioni tecniche connesse alla realizzazione di un gasdotto senza che fosse rilevabile una struttura qualificabile come stabile organizzazione in detto paese, l’Agenzia delle Entrate aveva espresso un parere pressoché identico.
    • La risposta n. 120/2024 è relativa ad una società italiana, priva di stabile organizzazione in Tanzania, che controlla una società in detto Paese nei confronti della quale realizza prestazioni definite di “assistenza nei servizi di ingegneria di progetto …”. In base all’art. 21 della Convenzione con la Tanzania, tali compensi possono essere tassati anche nel paese della fonte e l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto la possibilità di detrarre questa ritenuta ai fini delle imposte italiane.
    • Nella medesima risposta di cui al punto precedente si esamina anche un’altra casistica, nella quale la stessa società italiana svolgeva a favore di una stabile organizzazione in Uganda di una società olandese e di una stabile organizzazione in Tanzania di una società UK, impegnate nella costruzione di un oleodotto, una serie di prestazioni complesse. Sulla base dell’analisi di queste prestazioni, l’Agenzia delle Entrate ha negato il beneficio del credito per le imposte estere ex art. 165 del TUIR, in quanto una parte prevalente del compenso deriverebbe da servizi di tipo industriale, logistico e di approvvigionamento, i quali non rientrano nelle definizioni di “servizi tecnici” contenute nelle Convenzioni con l’Uganda e con la Tanzania.
    • Particolare è la risposta all’interpello 118/2023, che esamina il caso di compensi pagati da un committente tunisino ad un’impresa italiana, priva di stabile organizzazione in Tunisia, per studi ingegneristici finalizzati all’ammodernamento di una raffineria. In base al Protocollo della Convenzione stipulata tra i due paesi, difforme rispetto al modello OCSE, tali servizi hanno natura di royalties, tassate anche in Tunisia con un’aliquota del 12%. L’Agenzia delle Entrate ha analizzato il contratto tra le due imprese ed ha riconosciuto la natura di servizi tecnici delle prestazioni rese e la fondatezza del prelievo alla fonte, considerato di natura definitiva, in ragione del quale è stato ammesso il beneficio del credito per le imposte estere.

    Ultima Cassazione

    La sentenza della Corte di Cassazione 1312/2025 ha riguardato il caso di una società italiana che aveva svolto prestazioni per servizi tecnici a favore di una società romena, subendo una ritenuta alla fonte del 10% sul compenso lordo, portando la stessa a riduzione delle imposte sui redditi in qualità di credito per l’imposta pagata in Romania.

    Dalla sentenza emerge che, mentre la società aveva sostenuto che i compensi avessero la qualifica convenzionale di royalties, l’Agenzia delle Entrate aveva invece ricondotto gli stessi tra gli ordinari utili d’impresa, ex art. 7 del Trattato.

    Mentre nel caso delle royalties la Romania avrebbe avuto titolo a prelevare la ritenuta e la società italiana a beneficiare del credito ex art. 165 del TUIR, nel caso di utili di impresa, in assenza di una stabile organizzazione in Romania, la tassazione avviene esclusivamente nel paese di residenza del beneficiario, l’Italia, e quest’ultimo non ha diritto a beneficiare del credito per le imposte pagate all’estero.

    In tali situazioni, come già visto in precedenza, il contribuente dovrebbe richiedere l’imposta estera a rimborso all’altro Stato, nel quale è stata prelevata senza che vi fossero i presupposti convenzionali per farlo.

    Conclusione

    Stante l’incertezza sul tema, nel caso di imprese italiane che prestano i cosiddetti “servizi tecnici” nei confronti di clienti esteri, qualora questi servizi siano assoggettati a ritenuta nello stato della fonte, potrebbe essere opportuno proporre un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate per valutare la natura del servizio prestato e l’eventuale applicabilità del credito per le imposte estere.

  • Donazioni di denaro dall’estero: conseguenze fiscali in Italia

    Donazioni di denaro dall’estero: conseguenze fiscali in Italia

    Le donazioni di denaro provenienti dall’estero a favore di soggetti residenti in Italia sollevano diverse questioni di natura fiscale, in particolare per quanto riguarda l’applicabilità dell’imposta sulle donazioni prevista dal D.Lgs. 346/90.

    Non è infrequente il caso di famiglie i cui membri risiedono in Paesi diversi, in tali situazioni è necessario valutare le conseguenze derivanti dall’effettuazione di donazioni cross-border.

    La disciplina fiscale italiana si fonda sul principio della territorialità, che stabilisce l’imponibilità in base alla residenza del donante e al luogo in cui si trovano i beni oggetto di trasferimento.

    Il principio di territorialità ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 346/90

    L’art. 2 del D.Lgs. 346/90 disciplina la territorialità dell’imposta sulle successioni e donazioni, prevedendo due ipotesi principali:

    • Donante residente in Italia: l’imposta si applica a tutti i beni e diritti trasferiti, indipendentemente dal luogo in cui essi si trovano;
    • Donante non residente: l’imposta si applica solo ai beni esistenti nel territorio dello Stato.

    Donazioni di denaro dall’estero a favore di residenti in Italia

    In base a quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello n. 310 /2019, la donazione di denaro effettuata da un donante non residente a favore di un beneficiario residente in Italia non è soggetta a imposizione se il denaro proviene da un conto estero e non risulta “esistente” nel territorio dello Stato al momento della donazione.

    A conferma di questo principio si richiamano anche le pronunce della Corte di Cassazione:

    • Cass. 24 marzo 2021 n. 8175: il denaro donato tramite bonifico da un conto estero non è rilevante ai fini dell’imposta di donazione poiché si considera esistente fuori dal territorio italiano;
    • Cass. 30 marzo 2021 n. 8720: ribadisce l’irrilevanza fiscale della donazione di somme di denaro provenienti da conti esteri, in linea con i principi di territorialità sanciti dal D.Lgs. 346/90;
    • Cass. 12 aprile 2023 n. 9780: conferma che il criterio determinante per l’applicabilità dell’imposta è il luogo in cui è detenuto il denaro prima del trasferimento.

    Chiarimenti interpretativi recenti

    Un ulteriore chiarimento è stato fornito dall’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello n. 7/2024, in cui si afferma che il bonifico da un conto corrente estero a un conto corrente italiano non comporta l’applicazione dell’imposta di donazione, purché il denaro sia stato depositato su un conto estero prima della donazione.

    Questo principio è stato applicato anche nel caso specifico di una donazione effettuata da una cittadina svizzera a favore di un residente italiano per l’acquisto di un immobile in Italia. Nonostante il trasferimento avvenga a beneficio di un soggetto residente e il denaro venga utilizzato in Italia, l’irrilevanza fiscale è confermata dall’assenza del presupposto territoriale.

    Obblighi di monitoraggio fiscale (quadro RW)

    Pur in assenza di imposizione fiscale, il beneficiario residente in Italia è tenuto a dichiarare l’esistenza del conto estero e le relative giacenze nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, ai sensi del D.L. 167/1990.

    I trasferimenti superiori a 5.000 euro da o verso l’estero devono essere comunicati dagli intermediari finanziari all’Agenzia delle Entrate, come previsto dall’art. 1 comma 1 del D.L. 167/1990, da ciò deriva l’opportunità di formalizzare la donazione.

    Formalizzazione delle donazioni di denaro dall’estero

    Per evitare contestazioni, è opportuno formalizzare la donazione di denaro dall’estero mediante un atto scritto, anche se non richiesto dalla normativa estera. La mancanza di un atto formale potrebbe infatti generare dubbi sulla provenienza delle somme e comportare l’attivazione di controlli antiriciclaggio da parte dell’istituto bancario italiano.

    In caso di donazioni non formalizzate, è possibile procedere successivamente alla redazione di un atto notarile di ricognizione della liberalità, al fine di fornire adeguata documentazione a supporto della natura gratuita del trasferimento.

    Rischi di doppia imposizione

    Se in una donazione si riscontra una situazione di doppia residenza del donante, risulta complesso invocare un rimedio convenzionale per risolvere il conflitto. Tra le sette convenzioni sottoscritte dall’Italia in materia di imposta sulle successioni, solo quella con la Francia si estende anche alle donazioni.

    Anche qualora non vi fossero incertezze sulla residenza fiscale italiana del donante, ma il beneficiario fosse considerato non residente, è essenziale esaminare la normativa fiscale vigente nello Stato estero coinvolto.

    In alcuni Paesi, infatti, una donazione può essere soggetta a imposizione fiscale anche se riguarda beni situati all’estero, qualora il beneficiario sia residente. Questo è, ad esempio, il caso della Francia e della Germania. Di conseguenza, una donazione diretta di denaro a favore di un soggetto non residente può essere rilevante sia in Italia (in virtù della residenza del donante, con il donatario non residente come soggetto obbligato) sia nel Paese di residenza del beneficiario.

    In tali circostanze, eventuali situazioni di doppia imposizione fiscale dovrebbero essere risolte principalmente attraverso le disposizioni previste dalle normative tributarie nazionali di ciascun Paese.

    Considerazioni finali

    L’attuale interpretazione normativa, corroborata dalla giurisprudenza di legittimità e dai chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, esclude l’applicazione dell’imposta sulle donazioni per i trasferimenti di denaro effettuati da conti esteri a favore di soggetti residenti in Italia, se il donante è non residente. Tuttavia, resta fondamentale procedere con attenzione, adottando le necessarie cautele documentali e monitorando gli obblighi fiscali connessi al trasferimento di fondi dall’estero.

    In attesa di eventuali interventi legislativi in materia, è consigliabile una verifica preliminare degli effetti fiscali di qualsiasi trasferimento inter vivos a titolo gratuito che coinvolga elementi di internazionalità.

    Si rimanda all’apposito articolo per le implicazioni in tema di donazioni transfrontaliere per i soggetti che beneficiano del regime dei neo domiciliati.

  • Conferimento a realizzo controllato e abuso del diritto

    Conferimento a realizzo controllato e abuso del diritto

    Oggetto dell’articolo è il caso concreto della riorganizzazione di un gruppo familiare attraverso un conferimento a realizzo controllato e dei possibili profili di abuso del diritto dell’operazione.

    In base alla risposta all’interpello n. 169/2024, non è considerata abusiva ai sensi dell’art. 10-bis della L. 212/2000 l’operazione mediante la quale due soci costituiscono distinte holding unipersonali applicando il regime di realizzo controllato ex art. 177 co. 2-bis del TUIR e acquistano la partecipazione di un terzo socio, già oggetto di rivalutazione, utilizzando risorse derivanti da un finanziamento bancario, purché il socio cedente abbandoni definitivamente la compagine sociale e non assuma più incarichi, nemmeno in qualità di amministratore.

    Conferimento di partecipazioni qualificate

    Ai sensi dell’art. 177 co. 2-bis del TUIR, se la società conferitaria non ottiene il controllo ai sensi dell’art. 2359 n. 1 c.c. né aumenta la quota di partecipazione, il regime del realizzo controllato si applica quando si verificano congiuntamente le seguenti condizioni:

    • Le partecipazioni conferite rappresentano complessivamente una percentuale di diritti di voto esercitabili in assemblea superiore al 2% o al 20%, oppure una quota di capitale o patrimonio superiore al 5% o al 25%, a seconda che si tratti di titoli quotati o non quotati.
    • Le partecipazioni devono essere conferite a società, esistenti o di nuova costituzione, interamente possedute dal conferente o dal conferente con i suoi familiari di cui all’art. 5 co. 5 del TUIR, se il conferente è una persona fisica (l’inclusione dei familiari è stata introdotta dal D.Lgs. 192/2024 e si applica alle operazioni effettuate dal 31.12.2024 in poi).

    L’ambito soggettivo dell’art. 177 co. 2-bis del TUIR prevede che:

    • I soggetti conferenti possano essere persone fisiche, società o enti, indipendentemente dall’esercizio di attività d’impresa e dalla residenza.
    • La società conferitaria debba essere una società di capitali residente interamente partecipata dal conferente.
    • La società le cui partecipazioni sono oggetto di conferimento debba essere una società di capitali residente.

    Rivalutazione delle partecipazioni

    La rideterminazione del costo o valore di acquisto delle partecipazioni, mediante il versamento di un’imposta sostitutiva del 18%, è riservata ai soggetti che realizzano redditi diversi ai sensi dell’art. 67 co. 1 lett. c) e c-bis) del TUIR.

    Secondo la circolare dell’Agenzia delle Entrate 31.1.2002 n. 12, possono beneficiare di questa disposizione:

    • Le persone fisiche per le operazioni estranee all’attività d’impresa.
    • Le società semplici e i soggetti assimilati ai sensi dell’art. 5 del TUIR.
    • Gli enti non commerciali, purché l’operazione non avvenga nell’esercizio di attività d’impresa.
    • I soggetti non residenti per le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in società residenti in Italia, salvo disposizioni contrarie nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni.

    Un esempio concreto

    La risposta menzionata analizza una complessa operazione di riorganizzazione della struttura partecipativa di una s.r.l., partecipata da tre membri della stessa famiglia, volta a permettere l’uscita di uno di essi a causa di disaccordi con gli altri due.

    Il progetto di riorganizzazione prevede un doppio conferimento, in regime di realizzo controllato ex art. 177, co. 2-bis del TUIR, mediante il quale i due soci acquirenti costituiscono due holding unipersonali, conferendo le proprie quote della società di famiglia. Queste holding, utilizzando un finanziamento bancario, acquistano proporzionalmente la partecipazione del socio uscente, che aveva precedentemente rivalutato la quota.

    Dopo l’acquisizione, le holding cessionarie estinguono il finanziamento in un’unica soluzione, utilizzando i proventi di un dividendo straordinario erogato dalla s.r.l.

    Entro 12 mesi dalla conclusione della riorganizzazione, ciascun socio delle holding procederà al passaggio generazionale in favore dei propri discendenti.

    L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che l’intera operazione non generi un vantaggio fiscale indebito, in particolare con riferimento alla rivalutazione della quota seguita dalla cessione alle holding riconducibili agli altri soci. Tale configurazione di recesso atipico, che consente al socio uscente di qualificare il provento come reddito diverso e di applicare l’opzione per la rivalutazione, è ritenuta legittima purché l’uscita dalla società e dagli organi amministrativi sia totale e definitiva.

    Un elemento rilevante per evitare la riqualificazione in un recesso tipico è che i fondi per l’acquisto derivino da un finanziamento bancario anziché da risorse della società target, anche se successivamente il prestito viene rimborsato tramite un dividendo straordinario.

    Ultimo elemento, di non secondaria importanza è quello relativo alla deducibilità degli interessi passivi sui finanziamenti contratti dalle holding per l’acquisto delle partecipazioni, che non è considerata un vantaggio fiscale indebito ai fini delle imposte sui redditi.

  • Soggetti fiscalmente residenti in Italia con partita IVA estera

    Soggetti fiscalmente residenti in Italia con partita IVA estera

    Cosa accade quando soggetti persone fisiche fiscalmente residenti in Italia operano nel nostro paese attraverso una partita IVA estera?

    Immaginiamo il caso di una persona fisica residente in Italia ai sensi dell’art. 2 co. 2 del TUIR e, eventualmente, anche in base alle “tie-breaker rules” delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, che, senza il preventivo consulto con un professionista, decida di aprire una partita IVA in una differente giurisdizione, ad esempio la Romania o la Bulgaria, note per le aliquote particolarmente basse.

    L’intento può essere quello di operare in detto altro paese, con clienti e fornitori locali, ma anche quello di voler beneficiare di una tassazione più favorevole.

    Cosa accade quando tale soggetto, che ricordiamo essere fiscalmente residente in Italia, decide di fatturare con la partita IVA estera ai propri clienti italiani sostituti di imposta? Ad esempio ai medesimi clienti italiani con i quali fatturava in precedenza con la partita IVA italiana. A maggior ragione, nel caso in cui presti la propria attività presso i locali di detti clienti italiani.

    Allo stesso modo, e questo è un caso frequente, si può immaginare un soggetto trasferitosi in Italia dall’estero, acquisendo la residenza fiscale nel nostro paese. Supponiamo che questa persona continui ad operare in Italia con la partita IVA che aveva precedentemente nello stato estero pensando di continuare ad essere ivi tassato.

    Si omettono, in questo caso, le implicazioni relative ai regimi agevolati per i trasferimenti in Italia, per i quali si rimanda ad un apposito articolo.

    Esame del caso

    Un soggetto nella situazione descritta potrebbe tentare di invocare l’applicazione della Convenzione contro le Doppie Imposizioni tra l’Italia e il Paese estero presso cui ha aperto una partita IVA, con l’obiettivo di evitare la tassazione italiana. Tuttavia, tale ipotesi è da escludersi categoricamente.

    Anzitutto, per avvalersi della Convenzione, sarebbe necessario presentare un certificato di residenza fiscale rilasciato dall’Autorità estera competente. Tuttavia, se il soggetto mantiene la residenza fiscale in Italia, tale documento avrebbe esclusivamente la funzione di attestare le imposte versate all’estero, che possono essere detratte dall’imposta italiana secondo l’art. 165 del TUIR. Non è quindi possibile applicare la Convenzione, poiché i redditi derivano da attività di lavoro tra due soggetti fiscalmente residenti in Italia.

    Inoltre, anche qualora il soggetto riuscisse a dimostrare la sua qualifica di non residente ai fini fiscali italiani, la modalità effettiva di esercizio dell’attività in Italia potrebbe determinare la configurazione di una base fissa.

    Base fissa

    Per una trattazione approfondita della nozione di base fissa si rimanda allo specifico articolo. È comunque utile ricordare che, secondo il Commentario all’art. 5 del modello OCSE, l’elemento rilevante per individuare una stabile organizzazione è la disponibilità materiale di una sede fissa di affari, indipendentemente dal titolo giuridico con cui il contribuente ne ha l’uso (proprietà, locazione o altro).

    Nel caso del lavoro autonomo, rientra nella nozione di base fissa uno studio professionale stabilito in un altro Stato da un professionista. Tuttavia, esistono situazioni più sfumate, come il caso in cui il medesimo professionista svolga la propria attività presso la sede del cliente. In tali circostanze, il Commentario precisa che la qualificazione di base fissa dipende dalla possibilità di utilizzare i locali in modo stabile e continuativo.

    Al contrario, brevi visite presso il cliente per monitorare l’attività o definire i termini del contratto non costituiscono una base fissa.

    Diverso è invece il caso in cui il cliente metta a disposizione del professionista uno spazio dedicato per l’esecuzione continuativa dell’attività. Tale circostanza potrebbe essere quella che si realizza nel caso oggetto di analisi ma è  opportuno verificare, volta per volta, le condizioni contrattuali tra le parti.

    Il paragrafo 5 del Commentario all’art. 5 chiarisce che la qualifica di stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi è indipendente dall’eventuale apertura di una partita IVA nel Paese estero e si configura qualora il contribuente disponga di una sede fissa presso il committente.

    Trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette

    Se l’attività svolta in Italia da soggetti persone fisiche fiscalmente residenti che operano nel nostro paese attraverso una partita IVA estera è qualificabile come lavoro autonomo, il committente italiano assume il ruolo di sostituto d’imposta, applicando una ritenuta sul compenso sia nei confronti di soggetti residenti che non residenti. In particolare, come già approfondito in un precedente contenuto:

    • se il professionista estero ha una base fissa in Italia, il compenso è soggetto a una ritenuta d’acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25 co. 1 del DPR 600/73, in quanto assimilato ai soggetti residenti;
    • Se il professionista estero non ha una base fissa, ma la prestazione è eseguita in Italia, si applica una ritenuta a titolo d’imposta del 30% ai sensi dell’art. 25 co. 2 del DPR 600/73, salvo diverse disposizioni previste dalle Convenzioni internazionali;

    Trattamento IVA

    Anche sotto il profilo dell’IVA, la situazione presenta delle particolarità.

    Qualora il professionista non abbia una partita IVA italiana, come nel nostro caso, la sua presenza fisica continuativa e il coinvolgimento personale nell’attività potrebbero configurare una stabile organizzazione ai fini IVA (che presenta caratteristiche parzialmente differenti rispetto alla base fissa ai fini delle imposte dirette).

    Ai fini delle prestazioni territorialmente rilevanti in Italia, il soggetto dovrebbe aprire una partita IVA italiana. In tal caso, la base fissa, se partecipa all’operazione secondo quanto previsto dall’art. 53 del Regolamento UE n. 282/2011, è il soggetto passivo d’imposta. Pertanto, il committente dovrebbe ricevere una fattura con IVA italiana, anziché una fattura emessa da un soggetto estero senza applicazione dell’imposta, da integrare con l’IVA nazionale.

  • Partita IVA estera e lavoro in Italia

    Partita IVA estera e lavoro in Italia

    In questo contenuto si analizza la possibilità di svolgere un’attività di lavoro in Italia con una partita IVA estera, un’attività di per sé lecita, ma che ha notevoli implicazioni e presenta il rischio di essere tassati nel nostro paese qualora ricorrano determinate condizioni.

    Sono numerosi gli italiani che si trasferiscono all’estero, aprendo una partita IVA nel nuovo paese di residenza, ma che continuano a mantenere forti legami con l’Italia. Questo può accadere in ragione della clientela o del luogo di svolgimento dell’attività. L’articolo analizza le implicazioni fiscali per un soggetto non residente che lavora in Italia con una partita IVA estera, tralasciando il tema della residenza fiscale di tale persona e l’eventuale esterovestizione personale, per i quali si rimanda all’apposito contenuto.

    Ad apposito approfondimento si rimanda anche per le implicazioni ai fini IVA.

    Tassazione dei lavoratori autonomi non residenti in Italia

    Per quanto riguarda i soggetti non residenti che esercitano un’attività professionale in Italia, l’art. 23, comma 1, lettera d) del TUIR stabilisce che tutte le attività svolte nel territorio italiano rientrano nell’ambito di imposizione fiscale nazionale, indipendentemente dall’esistenza di una base fissa. Questo implica che anche una consulenza fornita in Italia da un professionista estero, recatosi presso la sede o un’unità locale di un’azienda italiana, è soggetta a tassazione italiana.

    Tuttavia, le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia assegnano, di norma, la potestà impositiva allo Stato italiano solo qualora il professionista non residente disponga di una base fissa nel paese. Al di là dei casi in cui la presenza di una base fissa è evidente, ad esempio, un avvocato straniero con un secondo studio in Italia, occorre valutare con attenzione le situazioni in cui viene concesso l’uso continuativo di un locale. Se il professionista che svolge il lavoro in Italia attraverso una partita IVA estera ha la piena disponibilità di tale spazio, esso potrebbe essere considerato una base fissa ai fini fiscali.

    Di contro, se il servizio professionale è reso all’estero, non si configura alcuna tassazione in Italia. Per questo motivo, ai sostituti d’imposta italiani che intrattengono rapporti con professionisti non residenti si raccomanda sempre richiedere una dichiarazione scritta, in cui il professionista attesti di essere fiscalmente residente all’estero e di aver svolto la prestazione al di fuori del territorio italiano.

    L’art. 25, comma 2, del DPR 600/73 dispone che i compensi erogati a soggetti non residenti siano soggetti a una ritenuta d’imposta del 30%. Tuttavia, tale ritenuta non deve essere applicata nei casi in cui le prestazioni siano effettuate all’estero o quando i compensi vengano versati alla base fissa italiana di un soggetto non residente.

    In quest’ultima ipotesi, i professionisti non residenti vengono assimilati ai residenti e sono tenuti a determinare in maniera analitica i redditi prodotti dalla base fissa, sui quali si applica una ritenuta d’acconto del 20%, ai sensi dell’art. 25, comma 1, del DPR 600/73.

    Prassi dell’Agenzia delle Entrate

    La Risoluzione n. 154/2009 dell’Agenzia delle Entrate, riguardante il trattamento fiscale dei compensi percepiti in Italia da una base fissa di una società professionale estera, ha confermato l’applicazione della ritenuta d’acconto del 20%. Tale posizione si basa sull’idea che la presenza di una base fissa in Italia comporti un grado di radicamento economico tale da assimilare il soggetto estero a un residente dal punto di vista fiscale. Questo principio è stato ribadito anche nella risposta a interpello n. 429 del 2019.

    In contrasto con questo orientamento, la Risposta a interpello n. 285 del 2022 dell’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione differente, stabilendo che i compensi versati da un committente italiano a un consulente non residente, ma con base fissa in Italia, siano soggetti a una ritenuta a titolo d’imposta del 30%.

    Infine, per quanto riguarda il regime fiscale dei compensi corrisposti per attività di lavoro autonomo svolta in Italia da un soggetto che successivamente si è trasferito all’estero, la risposta a interpello n. 512 del 2019 ha chiarito che si applica la ritenuta a titolo d’imposta del 30%. Ciò vale anche se i compensi si riferiscono a un periodo in cui il professionista era residente in Italia, ma sono stati percepiti in un esercizio fiscale successivo, quando il soggetto era ormai fiscalmente non residente.

    Esempi di Convenzioni contro le doppie imposizioni

    Nella valutazione delle specifiche situazioni in cui un soggetto con partita IVA estera svolge un’attività di lavoro in Italia, devono essere analizzate le singole Convenzioni contro le doppie imposizioni , alcune delle quali presentano regole particolari per il lavoro autonomo.

    L’articolo 14, paragrafo 1, delle Convenzioni tra Italia e Olanda e tra Italia e Spagna, così come accade nella maggior parte degli accordi internazionali stipulati dall’Italia, stabilisce che i redditi derivanti da lavoro autonomo siano tassabili esclusivamente nello Stato di residenza del professionista. Tuttavia, se quest’ultimo dispone in modo abituale di una base fissa nell’altro Stato per l’esercizio della sua attività, anche quest’ultimo Stato ha il diritto di tassare i redditi, limitatamente alla quota attribuibile a tale base fissa.

    Un esempio pratico è fornito dalla risposta all’interpello n. 53 del 2023, in cui l’Agenzia delle Entrate ha approfondito il concetto di base fissa analizzando il caso di un professionista residente in Spagna. Tale oggetto svolgeva attività di lavoro autonomo sia nel proprio Paese che in Italia, dove aveva soggiornato per un totale di 124 giorni nel corso dell’anno fiscale. In tale contesto, l’Agenzia ha sottolineato che, per determinare l’esistenza di una base fissa, è essenziale il requisito della fissità, che implica la presenza di un luogo identificabile e utilizzato in modo continuativo, sebbene non necessariamente per la maggior parte del periodo d’imposta.

    In definitiva, l’accertamento dell’esistenza di una base fissa in Italia per il professionista non residente dipende dal suo effettivo potere di utilizzo del luogo ai fini dell’attività lavorativa, dalla durata e dalla consistenza della sua presenza in tale sede, nonché dalle specifiche attività svolte. Il tempo di permanenza, da solo, non è un criterio determinante per questa valutazione.

    Particolarità rispetto ai trattati standard si riscontrano nella Convenzione tra Italia e Thailandia, che prevede la tassazione in Italia nei seguenti casi: se il residente thailandese soggiorna in Italia per più di 40 giorni nell’anno fiscale, oppure se i compensi gli vengono corrisposti da un’impresa italiana o da una stabile organizzazione italiana di una società con sede all’estero. Un’ulteriore particolarità si trova nella Convenzione tra Italia e Cina, che consente l’imposizione fiscale in Italia non solo qualora il professionista disponga di una base fissa, ma anche nel caso in cui soggiorni nel Paese per più di 183 giorni nell’arco dell’anno.

    Un caso ancora più particolare è rappresentato dall’articolo 14 della Convenzione tra Italia e San Marino, in base alla quale i redditi derivanti dall’attività professionale di un soggetto residente in uno dei due Stati possono essere tassati anche nell’altro Stato, in base alla normativa interna di quest’ultimo. Ciò significa che, per un professionista sanmarinese, i compensi possono essere assoggettati a imposizione in Italia, a condizione che siano territorialmente rilevanti, anche se il professionista non dispone di una base fissa nel Paese.

    Nozione di base fissa ai fini convenzionali

    Per definire il concetto di base fissa, è necessario fare riferimento ai criteri generali stabiliti dall’articolo 5 del modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, che richiedono, da un lato, la presenza di una sede fissa di affari, dall’altro, l’effettivo svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte della società o dell’ente estero attraverso tale struttura.

    Secondo il Commentario al medesimo articolo, per determinare l’esistenza di una stabile organizzazione non è rilevante il titolo giuridico con cui l’impresa utilizza la sede fissa, bensì il fatto di averne la disponibilità effettiva. Questo significa che l’impresa può possedere la struttura, averla in affitto, in leasing o semplicemente poterla utilizzare stabilmente.

    Applicando in via analogica questi principi alle attività di lavoro autonomo, si può concludere che uno studio professionale (ad esempio di un avvocato, medico o ingegnere) situato in un altro Stato costituisce una base fissa. Tuttavia, vi sono casi particolari in cui il professionista si reca direttamente presso la sede del cliente per svolgere la propria attività. In tali circostanze, è opportuno rifarsi ai principi espressi nei paragrafi 12-15 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE, secondo cui il requisito della fissità dipende dalla possibilità di utilizzare determinati locali, anche se appartenenti a terzi, in modo sufficientemente continuativo. Seguendo lo stesso principio, un professionista residente all’estero che si reca sporadicamente presso un cliente italiano per esaminare documentazione, monitorare lo stato di avanzamento dei lavori o negoziare il compenso, non può essere considerato titolare di una base fissa nel nostro paese. Al contrario, se uno studio italiano mette stabilmente a disposizione del professionista residente all’estero un locale per l’esercizio della sua attività, si potrebbe riscontrare la presenza di una base fissa in Italia.

    Cassazioni più recenti

    La sentenza della Corte di Cassazione n. 2286 del 31 gennaio 2025 ha ulteriormente approfondito la nozione convenzionale di base fissa per un professionista, evidenziando che la semplice disponibilità di locali in un altro Stato non è sufficiente a determinare l’esistenza di una base fissa. Quest’ultima, invece, si configura quando vi è un “centro unico di interessi per lo svolgimento dell’attività professionale nello Stato estero”, indipendentemente dal fatto che il professionista utilizzi sempre lo stesso spazio fisico. L’elemento essenziale, secondo la Corte, è il carattere continuativo della permanenza del professionista in quel Paese.

    Sulla base di questa interpretazione, una persona che opera in modo costante in un altro Stato potrebbe essere considerata titolare di una base fissa anche se il luogo di lavoro cambia di volta in volta. Inoltre, la Cassazione ha ribadito che, secondo la riserva formulata dall’Italia all’articolo 7 del modello OCSE, la nozione di base fissa non equivale a quella di stabile organizzazione, ma rappresenta qualcosa di meno. Perché si configuri una base fissa, è sufficiente che l’attività venga svolta in modo continuativo e con modalità analoghe a quelle adottate nel Paese di residenza, senza che sia necessario un effettivo titolo di disponibilità sui locali.

    Al fine di evitare eventuali contestazioni, è opportuno limitare e specificare la presenza del professionista in uno Stato estero sia in termini di durata sia per quanto riguarda l’uso di spazi e attrezzature. A tal proposito, è consigliabile inserire clausole dettagliate nella lettera di incarico.

    Home working per i professionisti

    Infine, in alcuni casi, anche l’esercizio dell’attività di lavoro autonomo dalla propria abitazione può configurare una base fissa al verificarsi di determinate condizioni, da valutare caso per caso. I paragrafi 18 e 19 del Commentario all’articolo 5 del modello OCSE forniscono un esempio emblematico: una consulente che risiede stabilmente in un altro Stato e svolge la propria attività dalla sua abitazione potrebbe essere considerata titolare di una base fissa, in quanto la sua casa rappresenterebbe il centro della sua attività professionale in quel Paese.

    Il caso particolare dei registi cinematografici

    Secondo quanto chiarito nella risposta all’interpello n. 129 del 2023, i compensi percepiti da registi non residenti per attività svolte in Italia rientrano nella categoria delle prestazioni professionali ai fini convenzionali (art. 14 del Modello OCSE), e non sono invece soggetti alle disposizioni specifiche previste per artisti e sportivi di cui all’art 17 del Modello OCSE.

    Questo implica che, in assenza di una base fissa, i compensi per il lavoro volto in Italia attraverso una partita IVA estera, saranno imponibili solamente nello Stato di residenza del percettore e non sono assoggettati alla ritenuta d’imposta del 30% prevista dall’art. 25, comma 2, del DPR 600/73. Simili conclusioni sono valide anche anche nel caso in cui i redditi siano stati erogati a una LLC, una partnership statunitense fiscalmente trasparente, interamente detenuta dal regista. Per l’applicazione dei benefici convenzionali alle partnership estere, si rimanda all’apposito contenuto.

    Il caso particolare di soggetti non residenti con partita IVA italiana

    Le risposte agli interpelli nn. 384 e 387 esaminano il caso opposto a quello di una partita IVA estera che svolge un lavoro in Italia. E’ il caso di soggetti non residenti che operano nel nostro paese attraverso una partita IVA italiana.

    Convenzione Italia – Thailandia

    La risposta n. 384/2023 riguarda un cittadino italiano intenzionato a trasferirsi in Thailandia, con l’obiettivo di avviare un’attività professionale in loco. Contestualmente, l’interessato vorrebbe aprire una partita IVA in Italia per emettere fatture relative a determinate prestazioni, sebbene nessuna di esse sia destinata a clienti italiani.

    Come illustrato in precedenza, l’art. 14 della Convenzione tra Italia e Thailandia, per quanto concerne i redditi da lavoro autonomo, prevede la tassazione in Italia se si verifica almeno una delle seguenti condizioni:

    • il residente thailandese trascorre più di 40 giorni all’anno in Italia;
    • i compensi provengono da un’impresa italiana;
    • i compensi sono corrisposti da una stabile organizzazione italiana di un’impresa con sede all’estero.

    Poiché queste condizioni sono alternative, anche solo la permanenza in Italia per oltre 40 giorni o l’esecuzione di una prestazione per un committente italiano determinerebbe l’obbligo di tassazione in Italia.

    Convenzione Italia – Cina

    La risposta n. 387/2023 affronta, invece, il caso di un cittadino italiano residente fiscalmente in Cina che intende aprire una partita IVA in Italia per fornire servizi di consulenza a società situate nell’Unione Europea. Tale soggetto possiede un immobile in Italia, il quale potrebbe configurare una stabile organizzazione nel territorio nazionale.

    Secondo il Commentario all’art. 5 del modello OCSE, la mera detenzione di una posizione IVA in un Paese non implica automaticamente l’esistenza di una stabile organizzazione ai fini dell’imposizione sul reddito. Tuttavia, l’eventuale configurazione dell’immobile italiano come stabile organizzazione dovrebbe essere valutata alla luce della definizione di sede fissa di affari fornita dallo stesso art. 5.

    Di norma, le Convenzioni sottoscritte dall’Italia stabiliscono che l’attività di lavoro autonomo sia imponibile nello Stato in cui viene esercitata solo se il professionista dispone in tale Stato di una base fissa. Nella risposta in commento, la base fissa potrebbe essere rappresentata dall’immobile italiano, purché le prestazioni lavorative vengano svolte effettivamente in tale luogo, fermo restando il principio per cui occorre distinguere il trattamento fiscale ai fini delle imposte dirette da quello ai fini dell’IVA.

    Tuttavia, la Convenzione tra Italia e Cina presenta particolarità rispetto ad altri trattati. L’art. 14, come anticipato, prevede la tassazione in Italia non solo qualora il residente cinese disponga di una base fissa per l’esercizio della propria attività professionale, ma anche nel caso in cui il medesimo soggiorni in Italia per un periodo superiore a 183 giorni in un anno. In assenza di almeno una di queste condizioni, i redditi derivanti dall’attività professionale sono imponibili esclusivamente nello Stato di residenza del beneficiario.

    Conclusioni

    In base a quanto sopra esaminato, risulta dunque opportuno affidarsi ad un professionista che sia in grado di determinare a quali condizioni la partita IVA estera che svolge un’attività di lavoro in Italia sia quivi soggette a tassazione e quali sono i rischi in termini sanzionatori.

  • Cessione di partecipazioni in società estere ereditate

    Cessione di partecipazioni in società estere ereditate

    Su quale valore viene calcolata la plusvalenza relativa alla cessione di partecipazioni in società estere ereditate da un contribuente italiano?

    Ai sensi dell’art. 67 del TUIR. sono imponibili in capo ai soggetti residenti, anche se di fonte estera, sia le plusvalenze relative a partecipazioni qualificate, sia le plusvalenze relative a partecipazioni non qualificate

    Per le persone fisiche non imprenditori, l’aliquota applicabile è il 26%, a meno che non si tratti di partecipazioni detenute in un soggetto a regime fiscale privilegiato, nel qual caso la plusvalenza è imponibile con i regolari scaglioni IRPEF nella misura del 100% del suo ammontare.

    La tassazione integrale non si applica, tuttavia, quando la partecipazione nel soggetto a regime fiscale privilegiato sia quotata nei mercati regolamentati.

    Inoltre, ai sensi dell’art. 68 co. 4 del TUIR, la tassazione integrale può essere evitata quando il socio residente in Italia dimostra che dalle partecipazioni non sia conseguito l’effetto di localizzare i redditi nel paradiso fiscale. Per approfondimenti circa le partecipazioni detenute in paesi a regime fiscale privilegiato, si rimanda all’apposito contenuto.

    Costo o valore di acquisto delle partecipazioni

    Quanto approfondito in questo articolo è la determinazione del costo o valore di acquisto delle azioni o quote ai fini del calcolo delle plusvalenze di natura finanziaria, così come determinato ai sensi dell’art. 68 co. 6 del TUIR. In particolare, ci si focalizza sulla cessione di partecipazioni in società estere ereditate da un soggetto non imprenditore residente in Italia.

    Per le partecipazioni acquisite tramite successione, la norma sopra menzionata precisa che si assume quale costo fiscale per l’erede il valore dichiarato o definito ai fini dell’imposta sulle successioni (quota parte del Patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio pubblicato o dall’ultimo inventario redatto, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti) oppure, qualora le partecipazioni non siano state assoggettate all’imposta sulle successioni ai sensi dell’art. 3 co. 4-ter del DLgs. 31.10.90 n. 346, il costo fiscale della partecipazione corrisponde al valore normale della stessa alla data di apertura della successione, secondo quanto previsto dall’art. 9 del TUIR.

    Nel caso in cui le partecipazioni siano quotate nei mercati regolamentati, invece, il valore è assunto nella media dei prezzi rilevati sul marcato nell’ultimo trimestre anteriore all’apertura della successione.

    Inoltre, il costo o il valore di acquisto preso come base per la determinazione della plusvalenza imponibile deve essere aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione, rappresentati, secondo quanto riportato nella C.M. 24.6.98 n. 165/E, da “tutte le spese e gli oneri strettamente inerenti all’acquisto delle attività finanziarie della cui cessione si tratta (ad esempio: l’imposta di successione e donazione, le spese notarili, le commissioni d’intermediazione, la tassa sui contratti di borsa, ecc.)“.

    Non dovrebbero essere computati, invece, gli oneri connessi alla mera gestione delle partecipazioni, in quanto non direttamente correlati alla produzione delle plusvalenze imponibili, così come le eventuali imposte (come l’IVAFE) che gravano sul possesso.

    Un esempio concreto

    Un esempio pratico può chiarire meglio il valore da attribuire ai fini del calcolo della plusvalenza.

    Nel caso esaminato nella risposta all’interpello n. 132/2024, un soggetto fiscalmente residente in Italia aveva ereditato un pacchetto di azioni relative a una società francese quotata.

    In questo caso il valore da assumere ai fini della successione, come anticipato è la media dei prezzi rilevati sul marcato nell’ultimo trimestre anteriore all’apertura della medesima.

    Poiché al momento del decesso il defunto risultava residente in Italia, l’eredità era soggetta all’imposta di successione sia in Italia che in Francia, secondo le rispettive normative nazionali.  In questo contesto, dato che i titoli ereditati si considerano situati in Francia (in virtù della sede della società), la legislazione fiscale francese prevedeva l’applicazione dell’imposta di successione locale, con un’aliquota pari al 60%.

    Di conseguenza, il contribuente italiano ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se l’imposta versata in Francia potesse essere considerata un costo accessorio di acquisizione delle azioni, rilevante per la determinazione della plusvalenza in caso di successiva cessione.